ARCHEOLOGIA MINERARIA: note metodologiche. Tredicesima parte
- Rischi senza frontiere
La miniera abbandonata è un luogo che cela varie insidie. In parole povere è potenzialmente pericolosa. Certamente uno speleologo sarà meno esposto ai rischi legati alla progressione, perchè già abituato ad andare in grotta, quindi ad affrontare ambienti bui, con pozzi, discenderie, parti instabili, acqua e quant’altro.
In ogni caso occorrerà usare una buona dose di cautela, dal momento che si potrebbero prospettare vari ‘inconvenienti’. Oltre agli incidenti “prettamente speleologici”, ovvero legati all’utilizzo e talvolta al non utilizzo dell’attrezzatura, in linea generale possiamo avere:
– modesti distacchi di materiale dalle strutture;
– crolli, ovvero cedimenti strutturali;
– presenza di sostanze venefiche o inquinanti o deflagranti.
Come ulteriore appunto (non si sorrida) si possono incontrare anche ambienti complessi e con sviluppi chilometrici: l’eventualità di perdersi non è così remota.
Idrocarburi, fanghi di miniera, acque acide, e via dicendo, possono intaccare l’attrezzatura assai più velocemente di quanto non avvenga in ambienti carsici.
Per quanto ci si sforzi ad ottenere degli ancoraggi adeguati e ad approntare degli armi corretti, sovente nella realtà dei fatti i risultati sono lungi dall’essere ottimali.
In linea di massima ogni ambiente sotterraneo è destinato nel tempo ad assestarsi naturalmente o a seguito di fattori collaterali. Cave e miniere abbandonate presentano zone interessate da cedimenti. Meno frequenti nelle coltivazioni antiche, in cui sono stati utilizzati per l’estrazione solo strumenti manuali (quindi senza l’impiego di esplosivi), divengono più frequenti in quelle successive, dove abbiamo un mutamento del metodo di abbattimento e di coltivazione.
Cunicoli e gallerie centinati con i tipici “quadri” in legno possono avere tali strutture marce e quindi precarie, senza contare che non assolvono al compito di contenere possibili cedimenti o pressioni.
Anche eventuali spazi “ripienati” potrebbero risultare instabili. In tratti allagati vi possono essere pozzi sommersi, quindi difficilmente individuabili, e “sabbie mobili”.
È possibile rinvenire esplosivi abbandonati, che non vanno in alcun caso nemmeno toccati. Il tempo e l’umidità possono averli resi instabili, quindi altamente pericolosi. Si ricordi inoltre che nei resti di fornelli da mina possono rimanere cariche inesplose.
Soprattutto nelle coltivazioni minerarie non è esclusa la presenza di sacche di gas naturali, costituiti da idrocarburi gassosi esistenti negli strati del sottosuolo, da dove emanano spontaneamente. Il più noto è il grisou o grisù, detto “gas delle miniere”. È un gas combustibile costituito da una miscela di metano o di altri idrocarburi, e anidride carbonica, ossigeno e azoto, che si può sviluppare nelle miniere di carbone e in quelle con la presenza di minerali di origine sedimentaria. Inodoro, insaporo e non tossico, miscelandosi con l’aria diviene infiammabile ed esplosivo.
La problematica legata a gas tossici od asfissianti non è d’immediata esplicazione, ma non per questo va ignorata. Oltre a ciò ricordo che il classico legname marcescente “brucia” l’ossigeno e se non ce ne accorgiamo in tempo, ovvero se non facciamo dietrofront quando si accusa il classico sintomo della “fame d’aria”, potremmo anche correre seri rischi [Gibertini 2005, pp. 265-276].
In linea di massima, le operazioni speleosubacquee in cavità artificiali sono meno complesse e rischiose di quelle effettuabili nelle grotte: infatti non avremo grandi profondità né sviluppi chilometrici. Fanno eccezione alcune coltivazioni sotterranee, poste su più livelli, rimaste sommerse a seguito della cessata attività estrattiva, quindi con la disattivazione dei sistemi di pompaggio dell’acqua d’infiltrazione, di subalveo oppure di falda [Bertulessi, Padovan 2005, pp. 251-258].
Si è recentemente concluso il lavoro presso un complesso di miniere situate nel Comune di Olgiate Molgora (LC), scavato a partire dagli inizi del XX secolo. Si tratta delle miniere Pelucchi, Cepera e Valicelli. Le indagini sono state condotte dal Gruppo Sommozzatori di Almè (Bergamo): «Per l’esplorazione e il relativo lavoro di rilievo, sino ad oggi sono stati impiegati molti metri di filo per sagolare le varie gallerie: in particolare, sono stati svolti più di tre chilometri di sagola. Inoltre sono state trascorse complessivamente, oltre settecento ore di immersione, con un consumo di 2.000.000 di litri di aria e 150.000 litri di ossigeno puro per le fasi di decompressione» [Bertulessi, Rota 2005, p. 52]. Nelle zone sommerse gli speleosub si sono spinti fino a 64 m dalla superficie dell’acqua: «Un’occhiata per l’ennesima volta ai miei manometri e poi mi avvio a ritornare in superficie. La visibilità è decisamente peggiorata: vedo a malapena ad un metro e mezzo» [Bertulessi, Rota 2005, p. 71].
Si dovrà tenere conto che le acque possono essere inquinate. Inutile ripetere che occorrerebbe farle analizzare preventivamente. Più di una volta si è rinunciato alle operazioni perché sull’acqua galleggiavano carogne di piccoli animali, tra cui topi e ratti. In ogni caso, si suggerisce sempre l’utilizzo di mute stagne.
Ma è bene rammentare che la regola d’oro è di non togliersi mai l’erogatore di bocca, a maggior ragione negli ambienti posti al di là di un sifone.
Nell’articolo di Samorè “Analisi d’incidenti mortali a speleosub e loro prevenzioni” si riporta: «Blocco di fango imprigiona due sub. Due respirano esalazioni di anidride solforosa dovuta a depositi di lignite in una grotta-miniera abbandonata, appena passato il sifone; il terzo si accorge del fatto e rimette l’erogatore agli altri ed esce a cercare soccorsi; inutilmente» [Samorè 1979, pp. 63-64].
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Gianluca Padovan
(Ass.ne Speleologia Cavità Artificiali Milano – Federazione Nazionale Cavità Artificiali)