1522: TRINOMIO VINCENTE (settima parte)
1522, TRINOMIO VINCENTE: FOSSATO, ARCHIBUGIO E MILIZIA MILANSE
… Attorno alla Bicocca si batterono come leoni per la sopravvivenza del Ducato
Tratto da: Gianluca Padovan, Forse non tutti sanno che a Milano…, Newton Compton, Roma 2016.
… francesi e svizzeri le prendono di santa ragione.
La cavalleria pesante francese carica, sbaraglia alcune formazioni di cavalleria leggera ducale e penetra nell’accampamento seguita dalle fanterie. Ma le tende, i padiglioni, le corde che tengono tesi i teli, i pali per legare i cavalli, nonché i carriaggi, impediscono le manovre e ostacolano l’avanzata: «Il S. Ambruogio Landriano Capitano d’una banda di cavalli Sforzeschi fu rotto, e fatto prigione, furono gettati a terra i padiglioni, e gli alloggiamenti, e i vasi d’argento del S. Antonio da Leyva, e del Duca di Termoli andavano in preda a’ guatteri, e a saccomanni. Fecesi alhora grandissimo tumulto tutto il campo».
Prospero Colonna, avvedutosi dell’attacco alle spalle, fa schierare al di qua del ponte di pietra la cavalleria del de Leyva e ordina allo Sforza di lasciare lo stradone e portarsi con la propria cavalleria all’attacco di quella francese e, al contempo, di sbarrare loro il passo verso il ponte di pietra. E così «i Cavalli Sforzeschi, mosse le insegne dalla via maestra entrarono in battaglia, ni corse anco tosto in aiuto una compagnia Italiana di archibuggieri».
Le milizie milanesi, a mal partito contro l’urto della cavalleria pesante, si scontrano invece con valore tenendo il campo contro la fanteria francese. Questa un po’ combatte, un po’ si dà al saccheggio e comunque non riesce a sostenere l’avanzata dei propri cavalieri: «Era di continuo con esso loro il s. Francesco Sforza; il quale gli confortava, e facevasi una varia e crudele battaglia, si come in luogo tutto impedito non pure da’ fossi, e da altissimi rivi, ma dalle funi de’ padiglioni, e da molti pali piantati per legare i cavalli».
Comunque la cavalleria francese riesce almeno in parte ad attraversare questo baillame imboccando la carrareccia che da sud li conduce a ovest, verso il ponte di pietra per cogliere alle spalle fanterie e archibugieri che si stanno ancora battendo contro gli Svizzeri. Anche parte dei fanti riesce ad imboccare tale strada, ma tutti sono efficacemente presi di mira dagli archibugieri e dai piccoli pezzi d’artiglieria milanesi dislocati lungo la sponda del canale. Giunti comunque al fatidico ponte hanno la strada sbarrata e si devono battere ferocemente per poter passare: «Combattevasi nondimeno valorosissimamente sul ponte, percioché quivi Lescù [Lescun. N.d.A.] riguardevole per sopraveste, e per pennacchi, faceva grande sforzo per passar dentro». Lungo le sponde le truppe milanesi fanno “muro” e di passare attraverso il fosso non c’è verso.
Il conte di Lescun ha il cavallo ucciso e fattosene dare un altro torna alla carica, ma viene ferito da una stoccata attraverso la visiera dell’elmo. Bloccati sul ponte, impossibilitati a guadare in forze il canale, bersagliati da ogni parte, i cavalieri francesi sono costretti a ripiegare, seguiti dalla decimata fanteria: «I Francesi dunque, i quali combattevano sul ponte, precipitati molti dall’una, e dall’altra parte nel fiume con horribile uccisione d’huomini, e di cavalli, furono ributtati». Odet de Foix conte di Lautrec non interviene con le sue schiere in nessuno dei due punti salienti della battaglia.
Intanto che gli Svizzeri ripiegano con un certo ordine, il marchese di Pescara comanda al Frundsberg di lanciarsi fuori al contrattacco con i suoi Lanzi e prenderli alle spalle. Ma questi si rifiuta chiedendo un compenso maggiorato: «e con disordinato romore chiamavano tre paghe». In pratica il tedesco è conscio d’avere fatto il proprio dovere e non vuole arrischiare la vita dei suoi uomini senza un ulteriore compenso perché, non si dimentichi, i mercenari funzionano a tassametro, come il taxi.
Il motivo del rifiuto va comunque cercato anche in altro, oltre al denaro, e come sottolinea Reinhard Baumann «Georg von Frundsberg si è conquistato il titolo onorifico di padre dei lanzichenecchi, non solo come vincitore di Vicenza, della Bicocca e di Pavia, ma soprattutto per non aver messo a repentaglio la vita dei suoi fanti per la sua propria gloria».
Pertanto il marchese di Pescara si risolve a mandare innanzi tre compagnie di Spagnoli, che nell’impeto dell’inseguimento scompaginano le proprie fila. Vengono così respinti facilmente dagli Svizzeri, oramai giunti alle proprie artiglierie, e attaccati al fianco dalle truppe di un Giovanni de’ Medici sempre all’erta.
Su ordine del Colonna intervengono allora alcuni squadroni della cavalleria imperiale ad evitare lo sterminio dei fanti, ma dall’altra parte accorrono reparti di cavalleria francese e veneziana a dar man forte al de’ Medici. La battaglia si riaccende e per altre due ore si va avanti a combattere duramente.
C’è da dire che da parte imperiale si vorrebbe passare al contrattacco in modo molto più deciso, ma il ponderato Colonna vaglia le informazioni pervenute dagli osservatori e considera che non solo gli Svizzeri si stiano ritirando con ordine e in formazione, ma che la cavalleria pesante francese e i cavalleggeri veneziani coi fanti sarebbero pronti a prenderli sui fianchi.
Così riporta Guicciardini parlando del Colonna: «ma egli credendo quei che era, che si ritirassero ordinatamente, e non fuggendo, e certificatone tanto più per la relatione di alcuni, che per comandamento suo salirono su certi alberi alti, rispose sempre non volere rimettere alla podestà della fortuna la vittoria già certamente acquistata né cancellare con la temerarietà sua la memoria della temerarietà d’altri».
La battaglia della Bicocca si conclude con la sconfitta dell’esercito del re di Francia e il rientro a Milano di parte dell’esercito imperiale.
Certamente gli scontri proseguono anche nei giorni successivi fino alla completa disgregazione dell’armata francese, ma questa è un’altra storia.
In città è festa grande e «Francesco Sforza diligentemente procacciò denari, aiutandolo in ciò i cittadini; diede la paga a’ soldati; e liberalmente donò a molti vesti di lana, e di seta».
Al congedo dei Lanzichenecchi dall’esercito imperiale dopo la battaglia della Bicocca Oswald Fragenstainer commenta lapidariamente e fors’anche in modo sibillino: «Che Dio ci protegga tutti dal vizio e dalla vergogna».
Intanto il Castello di Porta Giovia è ancora in mano francese e Luca Beltrami scrive sulla completa liberazione di Milano che «il Castello veniva nuovamente stretto d’assedio da Prospero Colonna, che comandava l’esercito della Lega: quattordici mesi durò l’assedio, tenuto con tutto il rigore, poiché per intercettare ogni comunicazione degli assediati coll’esterno, si scavò in quella circostanza un largo fossato che, attraversando il giardino del Castello, congiungeva i refossi di Porta Comasina con quelli di Porta Vercellina: ai 14 di aprile del 1523 il presidio, ridotto e sfornito per la mortalità e la fame, si arrendeva. Francesco I non indugiava a ritentare la conquista della Lombardia, venendo in persona a dirigere il piano di guerra: così, alla grave pestilenza che in quell’anno tolse di vita più di 80000 cittadini, si aggiunsero le rapine e le prepotenze militari. Ma le sorti furono nuovamente avverse ai Francesi: nella primavera del seguente anno 1525, la battaglia di Pavia metteva il Ducato nelle mani di Carlo V, che ne dispose a favore di Francesco II Sforza».
La guerra non termina con questa battaglia, si trascina fin’oltre al 1525 perché a croniche scadenze la città è cannoneggiata e invasa.
2021: 499 anni dai giorni della Bicocca!