Spezzoni incendiari illuminano Milano

Agosto 21, 2024 Off Di Archeologia del sottosuolo

Spezzoni incendiari illuminano Milano

Passeggiamo allegramente ad agosto lungo le vie del Centro Storico di Milano e apprezziamo i monumenti e le architetture. Nonostante il caldo.

Ma se osservate bene vi renderete conto che tra palazzi d’epoca, belli e decorosi, spuntano come funghi i palazzi moderni e molti di essi sono brutti e sciatti. Architettonicamente parlando non sembrano nemmeno figli d’architetti italiani. Eppure, accidenti, lo sono eccome, nella loro bruttezza e malagrazia inconcepibili.

La gran parte di questi “funghi” sono sorti laddove, a causa dei bombardamenti incassati dalla città, gli edifici sono stati colpiti, sono crollati oppure erano in condizioni tali da non poter essere restaurati. Ma non sorvoliamo nemmeno sul fatto che, per meri motivi di lucro, taluni edifici potevano essere recuperati, ma li hanno cancellati per un nuovo e costosissimo palazzo. Ma, questo, è altro argomento.

Passeggiando in questo bell’agosto, qualcheduno si lamenterà per il caldo, ma è bene che non lo faccia. In primo luogo lamentarsi induce sempre ad una regressione del proprio pensiero. In secondo luogo, fortunatamente, nessuno di noi oggi ha idea di che cosa voglia dire avere caldo.

Vedo già gli sguardi perplessi e i moti di stizza che fanno seguito alle mie parole.

Ebbene, nell’agosto del 1943, i milanesi d’allora potevano a buon diritto lamentare un “caldo atroce”.

Nel rifugio antiaereo pubblico erano seduti uno accanto all’altro e da regolamento si poteva occupare solo 50 centimetri di scomoda panca di legno. Un agio era il mettere tra l’asse e le proprie terga un cuscino per essere meno scomodi, ma tale cuscino diveniva “una stufa attaccata alle chiappe”.

Non si rida: l’aria d’agosto era calda, il rifugio vuoto era fresco, ma il rifugio pieno di gente era a dir poco soffocante. E poi la tensione, la paura, la ridda di pensieri su che cosa sarebbe accaduto di lì a breve erano i pistoni in movimento accelerato. E si sudava, ma di paura.

Sudori freddi

Nel rifugio antiaereo originariamente “privato”, ovvero quello classico del condominio, che dopo una manciata di mesi di guerra era divenuto anch’esso “pubblico”, di solito si sudava di più.

Dai racconti di guerra che ho raccolto tra i civili sopravvissuti ai bombardamenti emerge l’approssimazione del puntellamento dei soffitti e delle volte, ma anche la loro mancanza. Una signora mi disse che assieme ad altri bimbi passavano il tempo a contare i topi (o i ratti) che correvano sopra i tubi polverosi…

Ma il vero caldo arrivava quando l’edificio era colpito dalle bombe dirompenti e anche dagli spezzoni incendiari. Allora sì che faceva caldo. Allora la gente intrappolata nel rifugio non si lamentava per il caldo, ma urlava perché stava bruciando viva.

Pensate che oggi, adesso, a poco più d’un migliaio di chilometri di distanza da Milano, le cose vadano diversamente? In Ucraina è anche peggio, solo che non ve lo raccontano.

Ho conosciuto un milanese, unico sopravvissuto in un rifugio antiaereo casalingo colpito dalle bombe. La scala che conduceva in cantina era ingombra di macerie inamovibili, i lucernai erano anch’essi intasati di rottami e la gente, tutta sopravvissuta ai colpi, si dispose come meglio poteva per attendere l’arrivo dei soccorsi.

Ma si erano rotte le tubature del gas.

Certo che in caso di attacco aereo i gasometri dovevano chiudere i rubinetti, ma altrettanto certamente dovevano suonare per tempo le sirene che allertavano la gente affinché questa trovasse riparo. Pensate che questo sia sempre avvenuto puntualmente?

Il gas cominciò a fluire dalle tubature e quando se ne accorsero era oramai troppo tardi. Lui mi disse testuali parole: «…mia madre mi teneva stretto in braccio e mi premette sulla bocca e sul naso il suo fazzoletto intriso delle sue lacrime… e così mi trovarono i soccorritori, unico superstite…».

L’esuberante bombetta

Il “tipico” spezzone incendiario sganciato su Milano era una bomba al fosforo inglese che assomigliava ad un semplice tubo metallico a sezione esagonale, piatto su entrambe le estremità. L’ordigno-tipo, di cui hanno fabbricato qualche “variante”, è stato abbondantemente sganciato sulla città e prevalentemente sul Centro Storico, nell’intento non riuscito di innescare la così detta “tempesta di fuoco”. Com’era fatta la “bombetta incendiaria”? Lascio volentieri la parola descrittiva all’edizione italo-tedesca del 1943 di Der Adler, dal momento che all’epoca ce l’avevano, come si suole dire, “sotto mano”.

«Il tipo normale di bomba incendiaria prismatica inglese “elektron-thermit” ha con il suo peso di circa 1,7 kg una forza di penetrazione minima dato che non ha l’estremità appuntita ed è invece piana. In tal modo la sua azione si svolge quasi sempre nei piani superiori. La sua velocità è di circa 120 metri al secondo, il che corrisponde a circa 430 chilometri all’ora. Le 10 fino a 15 pillole di termite disposte nell’involucro di electron bruciano generalmente lentamente sviluppando una forte luce abbagliante. Contemporaneamente si sviluppa un denso fumo grigio, mentre la bomba si scioglie formando una massa incandescente che brucia gli oggetti facilmente infiammabili, provocando tuttavia nelle costruzioni di legno compatto soltanto un focolaio di incendio che si sviluppa lentamente. Da qualche tempo gli inglesi sostituiscono, in una piccola parte di queste bombe incendiarie prismatiche, al posto delle tre pillole poste nella parte inferiore, una carica di polvere che agisce dopo tre fino a cinque minuti dall’urto e, con una sensibile esplosione, provoca tutt’intorno il lancio di schegge violente. Lo scopo è quello di intimidire le squadre addette allo spegnimento degli incendi» (Heinrich Kluth, Grappoli illuminanti – bombe incendiarie – mine da bombardamento. Leuchttrauben – Brandbomben – Minenbomben, in Ministero Germanico dell’Aeronautica -a cura di-, Der Adler, Edizione italo-tedesca, 6 aprile, Berlino 1943, p. 11 [pp. 11-12]).

spezzone incendiario inglese della Seconda Guerra Mondiale

Heinrich Kluth, Grappoli illuminanti – bombe incendiarie – mine da bombardamento. Leuchttrauben – Brandbomben – Minenbomben, in Ministero Germanico dell’Aeronautica -a cura di-, Der Adler, Edizione italo-tedesca, 6 aprile, Berlino 1943, p. 11 [pp. 11-12]

L’indelebile timbro di una missiva non apprezzabile

Se pensate che tutto ciò appartenga ad un passato quasi remoto, in quanto avvenuto lo scorso secolo, in parte vi sbagliate. Come già detto, gli spezzoni incendiali avevano la sezione esagonale e le estremità piatte. Quando colpivano una superficie piana con una delle due estremità lasciavano una sorta di “timbro”. Mi spiego meglio: se picchiavano sullo scalino di granito o di scisto, oppure sul cordolo di pietra di un marciapiede, ma anche sui basoli di porfido del tipico “pavè” milanese, vi lasciavano impressa la loro forma esagonale.

Tutti i cordoli di granito dei marciapiedi, sopravvissuti alla modernizzazione, recano almeno un “timbro”. Andate attorno all’arcinoto Palazzo della Borsa, realizzato dall’architetto Paolo Mezzanotte nel 1932: io ne ho contati una trentina, di “timbri”. Una chiesa per tutte: Santa Maria alla Porta presenta ancora oggi numerosi “timbri”, nonché le sbrecciature (talune stuccate) dovute alla proiezione delle schegge degli ordigni dirompenti.

Concludo, tornando per un attimo ancora ai rifugi antiaerei. Se i cittadini erano obbligati a scendere nei rifugi quando suonava la sirena, le eccezioni non mancavano. Claustrofobici a parte, una signora mi ha raccontato del suo defunto cugino. Costui, un ragazzetto di quindici anni, o non scendeva affatto nel rifugio, oppure vi schizzava fuori ben prima che suonassero il “cessato allarme”. Correva laddove erano cadute le bombe per raccattare gli spezzoni incendiari non esplosi. Poi andava a venderli a chi recuperava i metalli, ai rigattieri, agli straccivendoli. Una notte gli andò male e si mise in spalla uno spezzone a innesco ritardato. Il fosforo gli inondò la spalla e il torace. Ci mise una settimana a morire tra urla d’atroce dolore. La signora, quando mi ha raccontato l’episodio, aveva le lacrime agli occhi, nonostante il tempo passato.

 

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