1522: TRINOMIO VINCENTE (quinta parte)
1522, TRINOMIO VINCENTE: FOSSATO, ARCHIBUGIO E MILIZIA MILANSE
… Attorno alla Bicocca si batterono come leoni per la sopravvivenza del Ducato
Tratto da: Gianluca Padovan, Forse non tutti sanno che a Milano…, Newton Compton, Roma 2016.
Nel campo francese gli Svizzeri sono di malumore e in subbuglio, ma non è una novità.
Loro prediligono gli scontri in campo aperto, decisivi, che assicurino rapida vittoria o comunque una definitiva risoluzione della campagna. Sanno bene, ma d’altra parte come ogni altro soldato mercenario, che la vittoria sul campo o la conquista di una città portano un forte compenso oltre al soldo giornaliero. Inoltre la possibilità del saccheggio garantisce sempre un lauto bottino. Di contro, il protrarsi delle operazioni militari non risolutive, marciando in lungo e in largo per la pianura, non li fa guadagnare adeguatamente. Non solo, ma li espone alle malattie e alle epidemie che sono sempre e ovunque lo spettro delle campagne militari, con esiti talvolta più letali delle battaglie stesse.
Ma il desiderio d’andare in battaglia è sostenuto anche dall’odio che nutrono nei confronti dei loro concorrenti, i Lanzichenecchi. Già, perché sarà ben difficile ottenere gli arruolamenti più vantaggiosi e meglio pagati se i mercenari migliori a disposizione sulla piazza, ovvero quelli che “vincono più spesso”, divengono i Tedeschi. E non è solo questo, perché i Lanzichenecchi considerano i mercenari svizzeri “dei vaccari”, dileggiandoli in ogni modo.
Il profondo rancore lo si comprende bene leggendo quanto scrive Reinhard Baumann: «Un canto composto da un fante svizzero dopo la battaglia della Bicocca dà voce al giudizio dell’altra parte: i lanzichenecchi erano degli svergognati mentitori, se si vantavano della loro vittoria. Non combattevano con onore; non avevano combattuto in campo aperto, ma si erano nascosti sottoterra come talpe, ed avevano vilmente impiegato contro i Confederati l’artiglieria (non le lance!). Pieno di rabbia impotente e con profondo disprezzo, il poeta concludeva il suo canto, con queste parole al lanzichenecco: “Ti caco una merda sul naso e te la giro nella barba”».
Gli Svizzeri chiedono dunque a Odet de Foix conte di Lautrec di assalire l’esercito imperiale attestato alla Bicocca, certi di poterlo sbaragliare e penetrare poi in Milano, anche tenuto conto che il Castello di Porta Giovia è ancora in mano francese. E, certamente, ottengono pure di poter mettere a sacco l’intera città, oltre all’accampamento avversario, visto e considerato che i Francesi hanno ora pochi denari con cui pagarli. L’alternativa è che se non assecondati possano lasciare subito la Lombardia e tornare in Svizzera, nei loro Cantoni.
Dal canto suo Odet de Foix sa che deve assolutamente concludere la campagna che fino a quel momento non ha portato a risultati apprezzabili, mentre ha un ordine ben preciso da eseguire: riconquistare per Francesco I la capitale del Ducato.
Il signore di La Palice è perplesso sul fatto d’attaccare gli Imperiali nel loro campo e ricorda ai colleghi d’arme che il marchese di Pescara è vigoroso e pronto, mentre Colonna è assai astuto e capace di organizzare un ottimo accampamento tanto per la sua difesa quanto per poter avere la meglio su chi lo assale. Soggiunge che la situazione non è poi così critica da dover accettare battaglia ad ogni costo, suggerendo di temporeggiare ancora un poco, portandosi alle spalle degli Imperiali, ovvero tra loro e Milano, così da costringerli ad attaccare e certamente non su di un terreno a loro favorevole e ben predisposto.
Odet de Foix è del parere opposto e decide d’accettare battaglia perché si è temporeggiato anche troppo e, per l’appunto, con scarsissimo successo. Inoltre, in caso di un mancato scontro decisivo, si rischierebbe che le truppe svizzere possano effettivamente disertare rimpatriando nei loro Cantoni. E così conclude: «Apparecchiate dunque l’arme, acciò che hoggi all’un di duo modi finiamo la guerra». Ovvero: “o la va o la spacca!”.
La Palice commenta a mo’ di risposta: «favorisca pure Iddio i pazzi e gli arditi, che certo io, per non parer di fuggire il pericolo, combatterò nella prima fanteria a piedi».
Motteggi a parte, la decisione d’attaccare non è certo presa alla leggera, ma ben ponderata e il piano di battaglia è così architettato: attaccheranno da nord e da sud contemporaneamente, prendendo gl’Imperiali in una morsa, tagliando loro la ritirata verso Milano e annientandoli definitivamente.
Innanzitutto si mandano in ricognizione alcuni cavalleggeri affinché osservino bene l’area della Bicocca e le sue circostanze, di modo d’avere un chiaro quadro tanto della configurazione del luogo e soprattutto dell’idrografia, quanto della disposizione delle truppe avversarie.
Il giorno seguente, di buon mattino, Thomas de Foix signore di Lescun guida metà della cavalleria pesante francese con la fanteria, in cui militano compagnie di ventura italiane, a sud ovest della Bicocca. Con un ampio giro tra filari d’alberi, boschetti e campagna devono giungere alle spalle degli Imperiali e attaccarne gli alloggiamenti. Portato lo scompiglio nelle retrovie avversarie hanno il compito di penetrare nel quadrilatero trapezoidale sfruttando il ponte di pietra che si trova lungo il lato ovest e attaccare alle spalle le fanterie dislocate lungo tutto il fronte nord.
Per ingannare l’avversario fanno indossare ai cavalieri e ai fanti le sopravvesti con la croce rossa sul petto, come quella indossata dagli Imperiali, al posto della loro che invece è blù. Così facendo potranno sfruttare al meglio l’effetto sorpresa, facendo credere di essere truppe di rincalzo imperiali giunte all’ultimo istante sul campo della Bicocca. L’aggiramento avviene spedito, se non ché alcuni cavalieri sono scorti: «Furono nondimeno veduti dagl’Imperiali i primi cavalli di Lescù da man sinistra rilucendo l’arme fra gli alberi». Ma procedono così al largo che sembra sorpassino il campo imperiale per dirigersi verso Milano. Così lo stratagemma, per il momento, non è compromesso.
Al contempo Giovanni dalle Bande Nere guida la sua cavalleria leggera, gli uomini d’arme e le altre compagnie di ventura che militano sotto le sue insegne in prossimità del trinceramento nord, in modo da intercettare ogni osservatore avversario. Inoltre, utilizzando soprattutto la cavalleria come schermo, maschera l’avanzata delle truppe svizzere in modo che queste possano mettere in batteria le loro artiglierie e schierarsi senza contrattempi. In quindicimila circa, gli Svizzeri sono divisi in due battaglioni principali e uno di riserva, con fanti armati prevalentemente delle loro famose picche e quattordici grossi pezzi d’artiglieria. Il piano è che dopo aver aperto il fuoco con i cannoni attacchino frontalmente il lato nord del campo della Bicocca, fiancheggiati da Babone Naldi con seicento-ottocento archibugieri veneziani.
Il conte di Lautrec rimane prossimo allo schieramento svizzero con la seconda metà della cavalleria pesante francese e le fanterie, pronto a gettarsi nella mischia appena gli Svizzeri avranno sfondato o comunque dove lo richieda la battaglia. Alle spalle di tutti prende posto il contingente veneziano con nove pezzi d’artiglieria e due squadroni di cavalleria, il cui compito è di proteggere lo schieramento da ogni possibile attacco di sorpresa.
Se prima dello scontro nel campo francese i mercenari Svizzeri, e probabilmente non solo loro, chiassano e s’impennano per via della paga, nel campo imperiale le cose non sono certo differenti e ce lo dice il senatore Giacomo Diedo (Venezia 1684 – Venezia 1748): «Se tali erano i disordini, e le confusioni nel Campo Francese, non era maggiore la concordia nell’Esercito Cesareo, che ridotto alla Bicocca, luogo quattro miglia distante da Milano, si trovava in grandi difficoltà: dimandavano i Lanzichenecchi con tumulto, e con minaccie le paghe; fuggivano i Fanti Italiani dalle insegne, prendendo servizio al soldo de’ Veneziani; trattavano di far il medesimo alcune Compagnie de’ Spagnuoli, e certamente sarebbero accaduti gravi sconcerti, se l’impazienza de’ Svizzeri non avesse troncato il filo alle buone speranze sostenendo di voler passare il Tesino, nel qual caso protestava il Gritti di non poter per gli accennati motivi fermarsi nè pure per un solo giorno nel Campo, di modo che a scanso delle frequenti minacce deliberò Lotrecco di assaltare gli alloggiamenti de’ Cesarei, sebbene fortissimi per la situazione, e quasi impenetrabili per i lavori dell’arte».